SETTORE DEL COMMERCIO: DIRITTI E SALARI IN SVENDITA

PRC Borgo San Lorenzo 6 novembre 2012 0
SETTORE DEL COMMERCIO: DIRITTI E SALARI IN SVENDITA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il volantone sulla situazione dei lavoratori del settore del commercio, pubblicato dal Coordinamento 20 Maggio. Da quanto questo testo è stato pubblicato (7 ottobre) abbiamo assistito a nuovi sviluppi nel settore. Coop Nordest ha disdettato il contratto integrativo e all’Ikea di Piacenza si è sviluppata la lotta dei facchini. Si tratta della conferma dell’analisi e della prospettiva sviluppata in questo testo. Puoi scaricare il volantone in versione stampabile, cliccando qui.

Settore del commercio: diritti e salari in svendita.

Secondo Confcommercio nel 2012 si registrerà “la peggiore variazione negativa” dei consumi dal 1946. La disoccupazione ha toccato il nuovo record dal 2004 e dall’inizio dell’anno sono state autorizzate 792 milioni di ore di cassa integrazione, in aumento rispetto al 2011. La crisi si è abbattuta su salari e diritti già fortemente ridimensionati da 20 anni di politiche di attacco al lavoro. E siamo solo all’inizio: Ires-Cgil calcolano per i prossimi due anni un’ulteriore contrazione dell’ 8% dei consumi delle famiglie operaie. Siamo di fronte a una compressione impressionante di salari e diritti, determinata dalla crisi e dalle politiche governative che l’hanno accompagnata. I lavoratori del commercio – 3 milioni circa – ne sono colpiti doppiamente. Come e più degli altri hanno subito la crisi. Si tratta, infatti, di un settore con fortissimo ricorso al part-time, al precariato e dove il salario medio si aggira intorno ai 700 euro. Il calo dei consumi e delle vendite inoltre impatta direttamente le aziende del settore. Queste ultime tentano, perciò, di scaricare con un’arroganza tutta propria il calo dei margini di profitto su diritti e salari dei propri dipendenti. Nel commercio si concentra per questo uno dei settori della classe anagraficamente più giovane e più sfruttato, che siamo sicuri non mancherà di essere tra i protagonisti dello scontro sociale nel nostro paese. Questo testo vuole essere un umile contributo a questo processo. La creazione di un modello sindacale democratico e partecipativo, l’unione delle lotte delle diverse aziende e la creazione di una nuova generazione di attivisti sindacali è un’urgenza ormai non più rimandabile.

Attacco al diritto al riposo. Le aziende tentano di recuperare i margini di profitto aumentando i ritmi di lavoro e allungando l’orario di lavoro assoluto. Per quanto riguarda i ritmi non vi sono dati precisi, ma ogni lavoratore del commercio sa quale sia la frenesia nel proprio lavoro. La cassiera di un discount, ad esempio, passa allo scanner 30 prodotti al minuto: due al secondo che diventano uno al secondo se si considerano i tempi morti di attesa o di pagamento. Il lavoro in cassa non ha nulla da invidiare alla vecchia catena di montaggio: operazioni ripetitive e continue che finiscono per stimolare sempre gli stessi punti del corpo e degli arti. Non è un caso se nel settore si registra un numero elevato di patologie agli arti superiori. La logistica – magazzini, scarico e carico merci – è spesso invece esternalizzata e affidata a ditte che lavorano in appalto al massimo ribasso. A questo si aggiunge la totale liberalizzazione degli orari commerciali effettuata dal Governo Monti nel 2011. L’articolo 31 del decreto Salva-Italia permette l’apertura degli esercizi commerciali senza alcun vincolo di giorno e di orario. Siamo quindi alla possibilità di rimanere aperti ventiquattro ore su ventiquattro, 365 giorni all’anno, con buona pace di domeniche e festività. Si tratta di un attacco frontale al diritto al riposo. Riposarsi non significa semplicemente staccare dal lavoro. Il riposo è socialità. Lavorare di domenica o durante una festa e fermarsi in un giorno infrasettimanale, quando amici, famiglia, conoscenti sono a lavoro o a scuola non equivale a riposare. Significa vegetare o sbrigare le commissioni della settimana in attesa di tornare sul posto di lavoro. Lavorare la domenica non crea nuovo salario e non crea nuova occupazione. Crea semplicemente nuovo sfruttamento. Si perdono posti di lavoro nei piccoli esercizi commerciali, che non riescono a stare dietro ai nuovi orari. Nel 2012 potrebbero chiudere fino a 65.000 negozi. Anche nella grande distribuzione le piccole ditte e cooperative a cui spesso sono appaltati magazzini o logistica non assumono più dipendenti. Finiscono per coprire le nuove aperture intensificando lo sfruttamento. Il risultato è sempre lo stesso: una maggiore concentrazione della produzione e una massa crescente di lavoro svolto da un numero decrescente di lavoratori, con buona pace di chi è disoccupato. Aprire di più, inoltre, non significa aumentare il totale assoluto dei clienti. Questi vengono semplicemente distribuiti su più giorni. Diminuiscono quindi i margini di profitto relativi al singolo giorno di apertura. Un meccanismo che le aziende non mancano di scaricare sulla mano d’opera, rendendola sempre più precaria e a basso costo. Infine lavorare nei giorni festivi non determina nemmeno un aumento in busta paga (ammesso che sia giusto “monetarizzare” il disagio del lavoro festivo). Visto che il lavoro festivo diventa ordinario, diminuiscono anche le maggiorazioni per il lavoro straordinario, fino al punto in cui quest’ultime spariscono completamente.

Prima un dito, poi tutto il braccio. Un peggioramento di tale portata però non è stato introdotto in un colpo solo. Come sempre le aziende si prendono un dito alla volta, in attesa di potersi prendere tutto il braccio. I lavoratori vengono preparati e abituati al peggio gradualmente, rosicchiando di anno in anno, di contratto in contratto, i diritti essenziali. Ogni cedimento parziale diventa così la tappa del cedimento finale. Il primo allargamento significativo delle domeniche lavorative avviene con il decreto Bersani del 1998 che deroga all’obbligo di chiusura domenicale e festiva per gli esercenti per 13 domeniche l’anno. Il contratto nazionale (Ccnl) del 2008 stabilisce in “via sperimentale” l’obbligatorietà del lavoro domenicale con l’aggiunta di un 30% di aperture domenicali comunali. Le domeniche lavorative giungono cos“ potenzialmente a 26.

Il Ccnl del 2008 viene firmato da Cisl e Uil. La Cgil-Filcams non lo accetta, ma dietro il rifiuto si nascondono più obiezioni di metodo che di contenuto. L’allora segretario generale Filcams, Ivano Corraini, dichiara: “L’accordo nazionale […] stabilisce l’obbligatorietà del lavoro domenicale, un’ipotesi che doveva essere discussa nella contrattazione di secondo livello. Il nostro non è un “no” tout court al lavoro domenicale, ma alla sede di discussione”. Questo approccio spiega perché, nonostante la mancata firma, la Cgil non mette in campo alcuna adeguata strategia di lotta per conquistare un contratto nazionale diverso. Al contrario si affretta a stringere nuovi legami con Cisl e Uil. Nel 2009 viene firmato un nuovo patto unitario in cui ci si limita a enfatizzare l’importanza della contrattazione di secondo livello. I dirigenti Filcams annunciano una nuova “stagione unitaria” ma nel 2011 si ripete lo stesso copione. Cisl e Uil firmano un contratto separato che peggiora ulteriormente la materia. Si toglie il carattere “sperimentale” dell’obbligo al lavoro domenicale. Il decreto liberalizzazioni é perciò la spallata definitiva ad un settore dove il lavoro festivo e domenicale è già stato fatto entrare gradualmente nelle abitudini e nei costumi di lavoratori e clienti. Ciò che era straordinario è diventato ordinario e questo non può che riflettersi anche sui salari.

Come già detto, il risultato finale é che, inserendo la domenica e le festività nel normale lavoro settimanale, le aziende fanno pressione affinché il lavoro nei giorni festivi cessi di avere maggiorazioni salariali straordinarie.

Attacco al diritto alla malattia. Non è una novità che le imprese spingano per una riduzione del diritto alla malattia. L’attacco alla malattia va di solito sotto la maschera ideologica dell’attacco ai fannulloni e all’assenteismo. Questa impostazione viene recepita e formalizzata nel commercio con il Ccnl 2011. La malattia viene trattata con una logica punitiva accettando implicitamente l’idea che sia sinonimo di assenteismo. Come se ammalarsi fosse una scelta volontaria o un piacere. Già in precedenza non veniva pagata al 100%. Dal 2011 i primi 3 giorni di malattia vengono pagati interamente solo per le prime due volte in un anno. Se un lavoratore si ammala una terza e una quarta volta, percepisce solo il 50% dello stipendio. Dalla 5¡ volta in poi, infine, non ha nessuna indennità per i primi 3 giorni di malattia. La malattia viene quindi equiparata a priori all’assenteismo. Oltre un certo tetto, deciso a tavolino, si stabilisce che un lavoratore non è malato ma semplicemente assente. A poco vale esibire certificati medici o altre prove. Per verificare se uno é effettivamente malato esistono i controlli Inps. Più uno si mette in malattia, tanto più ha probabilità di imbattersi in uno di questi. Punire a priori chi si ammala di più vuol dire semplicemente penalizzare chi ha più problemi di salute. Come se questo non fosse già di per sé un problema.

Come già detto, i ritmi e gli orari di lavoro nel commercio sono massacranti. Altro che fannulloni! Oltre all’intensificazione del lavoro festivo che abbiamo già spiegato, citiamo altre misure introdotte a partire dal Ccnl 2008:

  1. deroghe al riposo giornaliero; non più almeno 11 ore tra un turno e l’altro bensì solo 9.
  2. aumento del tetto delle ore straordinarie da 200 a 250.

A fronte di tali ritmi di lavoro, la malattia diventa una difesa naturale dell’organismo per staccare la spina. Lo stress da lavoro diventa la patologia principale. Periodi di malattia breve determinati da mal di testa, debolezza, esaurimento o insonnia sono inevitabili. Non è un eccesso di riposo che conduce al “lassismo” della malattia, ma é la privazione del riposo che genera la malattia come forma di riposo.

Dividi e comanda. Dividere è da sempre prerogativa di chi vuole comandare. Le aziende, ad esempio, si guardano bene dal condurre attacchi generalizzati e contemporanei a tutti i lavoratori. Attaccano prima i settori con meno diritti in attesa di togliere diritti a tutto il resto della classe. Facciamo un esempio: il precariato è stato a lungo la negazione delle tutele dello Statuto dei Lavoratori in materia, ad esempio, di licenziamento. Con la controriforma Fornero, che depotenzia l’articolo 18 dello Statuto, tutti i lavoratori diventano più licenziabili e quindi precari. Nel commercio dividere i lavoratori é una vera e propria arte. I peggioramenti vengono introdotti prima su base volontaria, facoltativa, per una parte dei colleghi, per gli apprendisti o i precari. I lavoratori assunti da più tempo con contratti a tempo indeterminato corrono così il rischio di sentirsi a riparo. Passa una logica silenziosa di “mors tua, vita mea”. Ma non appena i peggioramenti diventano la norma per una parte di lavoratori, ecco che le aziende cercano di estenderli a tutti gli altri. I Ccnl del commercio ed i vari integrativi abbondano di questi casi. Facciamo solo alcuni esempi che riguardano i permessi retribuiti. Il Ccnl 2008 stabilisce che agli apprendisti siano riconosciuti permessi individuali retribuiti al 50% solo a metˆ del periodo di apprendistato e al 100% solo alla conferma definitiva. Col Ccnl 2011 è la volta dei nuovi assunti: questi avranno diritto al monte ore di permessi spettanti agli altri dipendenti soltanto dopo 4 anni di servizio in azienda.

Quanta arroganza: che disdetta! Un lavoratore non difende la contrattazione sindacale come strumento astratto. Non è interessato all’accordo sindacale come strumento di legittimazione del sindacato di fronte all’azienda ma come strumento di miglioramento delle proprie condizioni di vita e salariali. Ma se “contratto” o “accordo sindacale” diventano sinonimi di bidone, concessioni all’azienda, perdita dei diritti acquisiti, si diffonde tra i lavoratori la totale apatia e il disinteresse verso l’azione sindacale. In questo modo le assemblee sindacali vanno deserte, le adesioni agli scioperi calano e i contratti arrivano a scadenza nella rassegnazione. Anni di contrattazione al ribasso preparano quindi il terreno al tentativo delle imprese di negare il contratto stesso. Nel commercio in particolare contratto nazionale e integrativo sono ormai fortemente sotto attacco. Abbiamo giàdetto del Ccnl 2008 e 2011, oggetto di intese separate da parte di Cisl e Uil, senza che ai lavoratori fosse data possibilitˆ di votare o decidere sul contratto stesso. Dal 2009, poi, assistiamo ad una sorta di “effetto Marchionne” che come un domino porta le aziende a disdettare un contratto integrativo dopo l’altro. La prima era stata Carrefour nel 2009, la quale si piega a firmare un nuovo integrativo – pessimo in verità per i lavoratori – dopo ben due anni di vertenza. Poi è arrivato il turno di Coop Estense che ha disdettato pochi mesi fa l’integrativo scaduto da anni [vedi box]. A fine luglio la Metro disdetta tutti gli accordi interni dal 1973 ad oggi. La Metro  tedesca: ci si risparmi la retorica sul “modello tedesco”! I padroni sono padroni ovunque. A Panorama (Campi Bisenzio, Firenze) viene firmato un accordo interno che è praticamente una disdetta messa nero su bianco [vedi il paragrafo Unicoop Firenze]. Il 28 settembre Carrefour disdetta nuovamente il contratto interno firmato nel febbraio 2011 e in scadenza nel dicembre 2012.

Naturalmente le disdette dei contratti di secondo livello e degli accordi interni non sono l’unico problema in un settore in preda a crisi e ristrutturazioni – vedi ad esempio la crisi Fnac – o dove centinaia di ditte o cooperative in appalto sono prive di qualsiasi copertura sindacale. Ma é una spia significativa dei livelli raggiunti dall’arroganza aziendale. Per anni i vertici sindacali, compresi quelli della Cgil, hanno incensato la contrattazione integrativa di secondo livello per regolare o recuperare peggioramenti, limiti o mancanze del contratto nazionale L’indebolimento del contratto nazionale ha invece preparato la via al totale azzeramento della contrattazione aziendale. E’ logico. Nella singola azienda i lavoratori hanno meno forza rispetto a quanta ne hanno muovendosi come intera categoria nazionale. Se sul piano nazionale si arretra di un metro, nella singola azienda si viene ricacciati indietro per interi chilometri. Come pensano le diverse direzioni sindacali di “tornare a trattare” con le aziende, quando queste dimostrano di non avere nessuna remora ad annullare da un momento all’altro gli accordi presi in precedenza?? In questo modo i contratti diventano “doveri” a senso unico. Il lavoratore deve sottostare al contratto, l’azienda può liberarsene quando vuole. La lezione ci pare chiara: non c’é nessun pezzo di carta che possa costringere un padrone a rispettare gli accordi presi, e tanto meno a concedere nuovi diritti. Solo i rapporti di forza costruiti con la lotta, la partecipazione dei lavoratori, il loro protagonismo e attaccamento al sindacato, possono costringere le aziende a ben più miti propositi. I vertici sindacali spesso traggono la conclusione esattamente opposta. Visto che le imprese si rifiutano di firmare i contratti, firmarne uno a qualsivoglia condizione è già un successo. Cos“ come successo in Carrefour una disdetta dell’integrativo prepara il terreno alla firma di un pessimo contratto che poi a sua volta non impedisce una nuova disdetta…

Il caso Panorama (Gigli, Campi Bisenzio, Fi). Panorama (Gigli, Campi Bisenzio, Fi) ha dichiarato 22mila ore annue in esubero. L’azienda si riserva di riassorbire queste ore “anche attraverso trasferimenti nei punti vendita che hanno necessità di implementare organico e sono ubicati sul territorio nazionale, ma non nella provincia di Firenze o in quelle limitrofe”. Questo significa semplicemente che a un lavoratore può essere chiesto di andare a lavorare a centinaia di chilometri di distanza. Nonostante questo, chiede e ottiene dai rappresentanti sindacali aziendali un pacchetto di domeniche da lavorare come “orario ordinario”. In caso le domeniche non siano coperte con disponibilità “volontarie” da parte dei lavoratori l’azienda può“comandare in servizio ordinario i lavoratori full time che abbiano il riposo settimanale normalmente coincidente con la domenica” nel limite di 143 ore medie e comunque fino ad un massimo di 2860 ore, nel periodo intercorrente dal 15 luglio al 30 novembre 2012”. Si tratta quindi di un accordo “sperimentale” per un periodo di poco più di tre mesi, in cui “i lavoratori full-time che abbiano il riposo settimanale normalmente coincidente con la domenica, non potranno essere chiamati dall’azienda con ordine di servizio oltre il numero di sette domeniche”. Quindi: l’azienda fa il gran favore di non comandare il lavoro ordinario per più di sette domeniche su tre mesi e mezzo. In cambio “per tutta la durata dell’accordo si impegna a non attivare alcuna procedura di mobilità”. Quanta grazia! L’accordo di Panorama sulla cui base poi diversi lavoratori hanno deciso di aderire alla mobilitazione Domenica No Grazie è uno dei classici esempi di come i più grossi peggioramenti possano essere introdotti “in via sperimentale”, provvisoria, per aprire in verità dei precedenti che stravolgono alla lunga la vita di decine e decine di lavoratori.

Il caso Unicoop Firenze. Pur non avendo firmato il nuovo Contratto nazionale del Commercio, la Cgil firma insieme a Cisl e Uil il Contratto della Distribuzione Cooperativa, che non differisce qualitativamente da quanto rifiutato in precedenza dai vertici Cgil. L’utilizzo di mano d’opera precaria viene resa ancora più conveniente con una serie di disparità tra nuovi e vecchi assunti, il recupero salariale di 86 euro è almeno due punti sotto l’inflazione e soprattutto viene depotenziato enormemente il ruolo del contratto nazionale, aprendo alla sua derogabilitˆ in fase di contrattazione aziendale su temi chiave come orari e malattia. I delegati del settore della Cgil, che si oppone a tale accordo, scrivono dopo la firma di questo testo: “la decisione di accettare la derogabilità del contratto nazionale non può che preannunciarci una stagione di lacrime e sangue ai tavoli territoriali a partire da Coop Estense, Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno e Coop Nordest”. Così avviene. Poco dopo Coop Estense disdetta unilateralmente il contratto integrativo scaduto da tre anni, sul modello di quanto fatto da Marchionne in Fiat. Ad un contratto nazionale debole e derogabile, corrisponde una contrattazione integrativa ancora più debole e azzerata. Recentemente i lavoratori Coop Estense sono scesi in sciopero ingaggiando un braccio di ferro con l’azienda. Diversa nelle forme, ma non nella sostanza, il caso di Unicoop Firenze. I legami tra Coop e Pd da un lato, e tra Pd e vertici Cgil dall’altro, non sono un segreto per nessuno. In questo caso, nessuno si può permettere la rottura della maschera di pace sociale che avvolge Unicoop Firenze. Viene firmato un nuovo integrativo senza un reale mandato da parte dei lavoratori. I testi rimangono addirittura segreti e poco chiari per giorni. Eppure il giorno dopo la consultazione la Nazione e il Tirreno escono con articoli in cui forniscono giudizi fantasiosi e entusiastici dell’accordo raggiunto.

A fronte di un aumento del divisore contrattuale (e quindi una forma di diminuzione salariale), a fronte di 250 nuovi full time in 3 anni, che non copriranno nemmeno i pensionamenti, Unicoop Firenze pu˜ continuare sulla strada della deregolamentazione di orari e organizzazione del lavoro. Nei minimercati, ad esempio, vengono previsti regimi di orario flessibile. Per un massimo di 24 settimane, i lavoratori devono svolgere un orario medio di 38 ore settimanale. Una media che pu˜ essere ottenuta lavorando fino a un massimo di 42 ore settimanali e un minimo di 20 ore settimanali. L’orario del lavoratore viene cos“ completamente asservito alle esigenze dell’azienda. Stesse clausole potranno essere applicabili in caso di punti vendita che producano risultati negativi in modo continuativo. Siamo sicuri che questo precedente, che riguarda oggi solo i minimercati, non mancherˆ in futuro di essere esteso a tutti gli altri lavoratori.

Per un modello sindacale democratico e partecipativo. Il sindacato appartiene ai lavoratori, che se ne devono riappropriare come strumento fondamentale per difendersi dagli attacchi aziendali e migliorare le proprie condizioni di vita. Niente in passato è mai stato ottenuto al di fuori della lotta. Se questo è sempre stato vero, lo è ancora di più in un periodo come quello che stiamo vivendo, di crisi strutturale del sistema. Il modello sindacale concertativo, basato sul confronto e la collaborazione “responsabile” con le aziende, non solo ha contribuito a peggiorare i nostri diritti e i nostri salari negli ultimi 20 anni ma è ormai superato dagli avvenimenti stessi. Le aziende non concertano, non trattano, non chiedono. Ottengono e impongono. E lasciano al sindacato poche possibilità: avvallare nuovi cedimenti o essere marginalizzato. Non si tratta di un modello relegato esclusivamente a Marchionne o alla Fiat, ma il comportamento di tutte le aziende, spinte dalla crisi e dalla conseguente riduzione del profitto. Per questo ad oggi possono esistere due soli modelli sindacali. Uno basato sul servilismo alle aziende da parte di un sindacato che si limita a fornire ai propri iscritti servizi, fondi integrativi etc… L’altro, democratico e partecipativo che faccia del coinvolgimento dei lavoratori e delle battaglie rivendicative la sua unica forza. Non un nuovo sindacato, quindi, ma un nuovo modello sindacale che ad un attacco prolungato, risponda con una lotta prolungata, che ad una crisi radicale risponda chiedendo un cambiamento radicale. Un modello sindacale che si basi sul protagonismo dei lavoratori, su comitati di iscritti e su coordinamenti che supportino l’Rsu e prendano in mano il loro destino sindacale.

Come Coordinamento 20 maggio questo è il processo a cui vogliamo contribuire. Lottiamo per:

-Il diritto alla malattia;

-L’abolizione del decreto liberalizzazioni;

-La difesa del diritto al riposo e di tutte le festività;

-Il principio che il lavoro festivo debba sempre e comunque essere pagato come straordinario;

-L’abolizione della legge 30 e di tutte le leggi precarizzanti;

-Aumenti salariali che recuperino l’inflazione reale!

Cos’è il Coordinamento 20 Maggio?

Il coordinamento 20 maggio nasce da un’assemblea in difesa dello Statuto dei Lavoratori tenutasi a Campi Bisenzio (Fi), con circa un centinaio di lavoratori. Il suo obiettivo é difendere e far rivivere i diritti conquistati dal movimento operaio, stimolando e collegando la lotta dei lavoratori delle diverse aziende. Non é una struttura concorrenziale ai sindacati esistenti ma semplicemente un coordinamento orizzontale tra i diversi luoghi di lavoro.

Lascia un commento »