Romina Velchi
La fuori c’è un mondo che chiede di entrare; c’è una realtà in carne e ossa che chiede di contare, di avere voce in capitolo. A Napoli va in scena il confronto tra il centro e la periferia “dell’impero”, per stare alla metafora usata da Rosa Rinaldi aprendo i lavori dell’assemblea dei segretari dei circoli di Rifondazione delle regioni del sud (Campania, Basilicata, Puglia, Calabria: presenti 85 circoli. Per la Sicilia e la Sardegna assemblee analoghe si sono svolte il 19 maggio), convocata nella bella sala Gemito, proprio di fronte al museo nazionale della città partenopea. Un pezzo del percorso verso il congresso straordinario che si svolgerà in autunno.
Nonostante il pessimismo che qua e là affiora negli interventi, il dibattito è tutto un incalzare, un chiedere, un interrogare, un pretendere che il partito, e cioè i suoi vertici, dia un chiaro segno di svolta. Non solo o non tanto al congresso, urgente è capire «chi siamo e dove andiamo». E certo l’occasione (è la prima volta che i segretari dei circoli vengono “convocati” in una plenaria) è ghiotta per mettere nel tritacarne le scelte politiche compiute fin qui (qualche volta condivise, qualche volta subite). «Siamo orfani di un percorso politico, costretti a ripartire da zero – accusano in un documento letto in assemblea 18 circoli della federazione di Bari, che mettono all’indice «scelte deleterie» come la federazione della sinistra o «frettolose» come Rivoluzione civile – Abbiamo aspettato le iniziative altrui, mai siamo stati promotori, ispiratori, incapaci di orientare i processi politici». Per Daniele (Napoli) «il problema non sono le conferenze, i seminari e i congressi ma linea politica, non vedo chiarezza», mentre da Foggia rimproverano che «abbiamo peccato di poca autonomia e subalternità», offrendo un’indicazione di metodo: «Se stiamo sui problemi concreti non abbiamo il problema dell’oscuramento mediatico». Si accalora, Lucio (Paola), quando dice che «non ci siamo presentati per quello che siamo» e che «il nostro simbolo è un manifesto politico» ma «riesce a parlare di più agli altri che non a noi. Non propongo una ricetta di chiusura o svolte settarie, va bene costruire un fronte alternativo, ma non ci possono chiedere passi indietro, non dobbiamo nascondere la nostra identità politica». «Non ci dobbiamo meravigliare se non ci votano, siamo stati gli ultimi a lasciare Bassolino – attacca Gabriele (Napoli) – e ora recuperare una dimensione di credibilità non è semplice. Se il problema è ancora che dobbiamo decidere una tattica di breve periodo per rientrare in parlamento, beh io non sono disponibile. Non voglio stare con una forza politica che vota sì a Maastricht, lo faccia Vendola». Come dire: viene prima il progetto, poi il processo di unità. «Una volta facciamo gli ambientalisti, un’altra i radicali: ci dobbiamo caratterizzare di più come comunisti – invita Emanuele (Francavilla fontana, Brindisi) – Così il Prc avrà un futuro». Insomma, nessuno, o quasi, mette in dubbio che Rifondazione non sia autosufficiente e che sia necessario costruire alleanze, ma il punto è come lo si fa; cioè, se il Prc «lotta per l’egemonia del nuovo soggetto politico».
Già, il progetto. Come Mimmo (Pomigliano) lo ripetono in molti: «Manca un progetto politico» o quanto meno non è chiaro, dentro e fuori il partito. Il che poi è uno dei motivi per cui si è deciso di tenere queste assemblee: «E’ evidente che dentro il Prc c’è difficoltà a far circolare le informazioni e le opinioni – aveva esordito Rosa Rinaldi nell’introduzione – Si fa sentire l’assenza drammatica del giornale. Queste assemblee vorrebbero servire come momento di ascolto su una proposta di rilancio di Rifondazione per la costruzione di una sinistra alternativa e su come farlo». In breve, la domanda è: «Stiamo facendo accanimento terapeutico su un corpo sfinito?», mettendo però sul piatto qualche punto fermo: «Abbiamo perso la campagna elettorale delle politiche durante la campagna elettorale, perché il programma era buono»; «Paghiamo la generosità dimostrata quando abbiamo messo da parte le nostre bandiere»; «Le elezioni amministrative dimostrano che abbiamo ancora un corredo di credibilità là dove riusciamo a costruire alleanze alternative al Pd e invece perdiamo sonoramente dove andiamo da soli»; «Stiamo facendo incontri a sinistra (Fiom, Rossa, Alba; Sel finora non ha risposto all’invito), ma basta ripercorre schemi falliti».
Pur senza nascondersi le enormi difficoltà, nelle risposte dei circoli non c’è rassegnazione o disfattismo; non ci sono «toni assolutori o autolesionistici», per dirla con Raffaele Tecce. Proprio nelle regioni del Sud la condizione è drammatica, prima di tutto sul piano sociale, e il lavoro politico è difficilissmo («Persino l’abbonamento a Liberazione è un lusso»). Il caso Ilva è un po’ la metafora del Sud: «C’è tutto: la questione ambientale, quella occupazionale, l’intreccio mala politica-affari» sottolinea Giovanni, del circolo Impastato. Ma proprio il polo tarantino è anche l’emblema del ruolo che un partito come Rifondazione può ancora svolgere: «La nazionalizzazione non è una proposta di oggi – dice ancora Giovanni – e non deve essere semplice maquillage. La Confindustria non la vuole perché teme possa diventare un precedente, ma noi andiamo avanti: abbiamo lanciato una petizione, prima tra i lavoratori, poi in tutta la città per chiedere la nazionalizzazione» (e non a caso Rinaldi aveva aperto la sua relazione leggendo il testo della petizione). Non è una passeggiata: i lavoratori vengono già minacciati e invitati a non firmare. «Ecco – dirà nelle conclusioni Roberta Fantozzi – noi siamo anche quelli che, da soli e con coraggio, hanno invitato a non scioperare contro i magistrati». Ma in generale «A Roma con la Fiom c’erano i comunisti, senza il Prc sarebbe stato un flop» insiste Emanuele.
La forza, la determinazione ad andare avanti, forse, i circoli del sud la trovano proprio nella fatica quotidiana, nel doversi misurare ogni giorno con i problemi concreti, spesso drammatici, delle persone in carne e ossa. E quando riescono a trovare un varco, a farsi riconoscere, i risultati arrivano, come a Marano. Non accanimento terapeutico, dunque, ma nemmeno riunione da «alcolisti anonimi». «Non state lì a guardarvi l’ombelico» è l’invito che più d’uno rivolge ai dirigenti nazionali. «Troppe analisi, troppe parole. Noi dobbiamo essere il partito dei fatti» esorta Pino (Cosenza).
E soprattutto, «dobbiamo essere il partito delle idee e non delle tessere». La nota dolente è, anche, sulle modalità con cui vengono scelti i gruppi dirigenti: «Non può più essere accettato che sia rappresentato chi ha più tessere, ma ha meno consensi» si dice da più parti. E l’invito, davvero pressante, è a non fare un congresso «contro qualcuno, ma per qualcosa» e a rompere «l’immobilismo delle logiche pattizie e correntizie». Insomma, il congresso deve essere l’occasione anche per riscrivere le regole per pratiche nuove di funzionamento interno.
Un invito che Fantozzi raccoglie nelle sue conclusioni, anche auspicando che incontri come questo diventino «un modo di funzionamento normale del partito». Ribadendo che Rifondazione «è necessaria ma non sufficiente», Fantozzi invita a prendere esempio proprio dall’esperienza locale dei circoli: «Il Prc continua a svolgere un ruolo ed è assolutamente decisivo, pur con le difficoltà, per la costruzione di una sinistra alternativa. Quale altro soggetto organizzato ha questa prospettiva?»; però, il baricentro dell’iniziativa politica devono essere «la crisi e il contrasto alle politiche che l’hanno provocata» e che ancora non hanno dispiegato in pieno i loro effetti. Le proposte concrete non mancano, Fantozzi le elenca una per una (tra cui quella di una legge di iniziativa popolare per modificare l’art.75 della Costituzione che vieta i referendum sui trattati internazionali) e annuncia che nel prossimo Cpn verrà data una presenza ancora più forte alle vertenze territoriali. Soprattutto anche Fantozzi ribadisce «no ad un bis di Rivoluzione civile; o parte un processo vero di autonomia dal centrosinistra oppure il Prc alle prossime elezioni europee si presenterà da solo».
Ma è tutto lavoro da fare e da costruire per rimettere in piedi il partito: «L’elaborazione politica dovrebbe essere elemento costante» della vita del Prc. I circoli non chiedono altro.